Diario di un'amicizia
In un libro
bellissimo, la dottoressa Wanda Poltawska racconta come un giovane
sacerdote, che sarebbe diventato poi Papa Giovanni Paolo II, guarì
la sua anima dagli incubi mortali provocati da cinque anni trascorsi
in un Lager nazista, dando vita a una straordinaria e fraterna
amicizia durata oltre mezzo secolo
UN FRATELLO
DI NOME KAROL
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DI
Renzo Allegri -
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E’ arrivato in libreria l’ennesimo libro
dedicato a Giovanni Paolo II: un grosso volume di 640 pagine
pubblicato dalle Edizioni San Paolo con il titolo “Diario di
un’amicizia” e il sottotitolo “La famiglia Poltawski e Karol Wojtyla”.
Tra i numerosi libri che sono stati scritti sul Papa polacco, questo
è una cosa a se stante. Autrice, Wanda Poltawska, medico psichiatra
polacca, che fu amica e collaboratrice di Wojtyla fin dal 1950,
quando il futuro Papa era un semplice sacerdote, assistente
spirituale dei giovani universitari, amicizia che è continuata fino
alla morte del grande Pontefice.
E’ un libro fuori dai normali schemi, che
contiene molti scritti inediti di Wojtyla, riflessioni, appunti,
suggerimenti per la vita spirituale e soprattutto parecchie lettere.
Non è una biografia. Non ha niente a che fare
con la storia pubblica e cronologica di Wojtyla. Non è neppure stato
scritto per essere pubblicato. Si tratta di una raccolta di appunti,
di impressioni, che la dottoressa Poltawska ha fissato in vari
quaderni nel corso degli anni, una specie di diario, dal quale ha
tratto questo libro, utilizzando, in pratica, una piccola parte
dell’enorme materiale che possiede. E fu lo stesso Giovanni Paolo II
, che aveva letto i quaderni di appunti, a suggerire che se ne
facesse una pubblicazione, ritenendo che sarebbe stata utile.
Nel giugno dello scorso anno, quando il libro
venne pubblicato in Polonia, fece parlare i giornali di mezzo mondo,
suscitando critiche e scandalo. Molti giudicarono sconveniente che
Karol Wojtyla avesse coltivato una amicizia così profonda con una
donna al punto da continuare a scriverle lettere anche da Papa.
Altri condannarono la dottoressa Poltawska, accusandola di
protagonismo e smania di pubblicità, per aver rese pubbliche quelle
lettere che, secondo loro, dovevano rimanere segrete e affermando
che la pubblicazione poteva addirittura nuocere alla causa di
beatificazione. Per fortuna, questo non è accaduto. La Chiesa, nei
suoi rappresentanti qualificati allo scopo, era al corrente del
contenuto del libro, lo aveva già esaminato, e nessun riverbero
negativo si è avuto sul processo che, per la parte dell’esame della
vita e degli scritti di Wojtyla, è stato concluso con il decreto di
riconoscimento delle virtù eroiche firmato dal Benedetto XVI a metà
dicembre scorso. E si prevede che la solenne beatificazione possa
avvenire ad ottobre o al più tardi nell’aprile del 2011.
Leggendo
questo libro con calma e attenzione, si rimane profondamente colpiti
dal contenuto altamente spirituale. Scritto con uno stile asciutto,
conciso, e pochi accenni personali da parte dell’autrice, ha un
fascino irresistibile. Fa scoprire innumerevoli dettagli dell’animo
di Karol Wojtyla e di quello della dottoressa Poltawska. Le lettere
di Wojtyla, non essendo ufficiali, ma destinate a una singola
persona, palesano la sua straordinaria sensibilità, la grandissima
umanità e soprattutto l’eccezionale santità. Svelano come egli fosse
in continuo contatto con Dio. Non in forma pietistica, formalistica,
ma concreta e permanente. Viveva come se camminasse davanti allo
sguardo di Dio. Mai, in nessun momento della sua giornata, perdeva
questa consapevolezza e la trasmetteva a chi gli era vicino.
Per la quasi totalità, il libro è costituito da
“esercizi scritti” per un cammino ascetico che la dottoressa
Poltawska ha fatto sotto la guida del suo direttore spirituale che
era appunto Karol Wojtyla. Lui le indicava i temi delle meditazioni
quotidiane e lei metteva per scritto i pensieri e le riflessioni che
faceva, inviandoli poi al direttore spirituale che valutava,
suggeriva, guidava verso nuovi traguardi interiori. E inviava lui
stesso i propri appunti sugli stessi temi, quasi a confrontarsi. Una
lunga ascesi, precisa, quotidiana, costante, che la dottoressa
Poltawska ha compiuto insieme al proprio marito, Andrzej, e alle
proprie figlie, e, si può dire, anche insieme allo stesso Wojtyla
che ha voluto farsi, con loro e per loro, “fratello”, e “ viandante”
nel cammino verso Dio.
Un’esperienza eccezionale, diventata nel tempo
amicizia profonda. Scrivendo le sue lettere, Wojtyla chiamava la
dottoressa con il diminutivo di “Dusia” (sorellina) e si firmava con
la sigla “Fr”, (fratello). Esperienza certamente originale e
d’avanguardia, ma viva, concreta e sublime, che richiama la vita dei
primitivi cristiani, di santi come Francesco e Chiara, e in
particolare l’amicizia di San Francesco di Sales e Santa Giovanna di
Chantal. Solo un uomo come Wojtyla, santo e poeta, drammaturgo e
mistico, grande e umile, poteva realizzare un’esperienza del genere,
che diventa ora, attraverso il libro, un vero “patrimonio
spirituale” per chi ha il coraggio di leggere e di lasciarsi
conquistare.
Per capire bene questa meravigliosa avventura
umana e spirituale, bisogna conoscere la storia che l’ha originata.
In particolare quella dell’autrice, donna molto nota in Polonia per
la mole di iniziative cui ha dato vita nella sua ormai lunga
esistenza, ma anche, in un certo senso, “sconosciuta” perché
riservata, chiusa, gelosa della propria esistenza privata.
Consapevole, però, del ruolo che le è stato riservato dalla
Provvidenza, giunta a un’età che si avvicina ai novant’anni ha
ceduto alle pressioni degli amici e al desiderio che aveva già
espresso Wojtyla, mettendo a disposizione in questo libro le
esperienze fatte accanto a un grande uomo e un grandissimo santo.
Wanda
Poltawska conobbe Karol Wojtyla nel 1950, a Cracovia. Lei aveva 29
anni, lui 30. Wojtyla, sacerdote da quattro anni, era assistente dei
giovani studenti universitari, e Wanda, già laureata in medicina,
frequentava i corsi di psicologia e psichiatria.
Aveva alle spalle una terribile esperienza.
Nata a Liblino, in una famiglia molto cattolica, aveva avuto una
infanzia e una prima giovinezza serene, impegnata nel movimento
degli Scout. Nel 1939, quando i nazisti invasero la Polonia, Wanda,
che aveva 18 anni, come altri suoi coetanei era entrata nella
Resistenza partigiana, per difendere la patria. Ma venne scoperta e
arrestata e inviata nel famigerato campo di concentramento nazista
di Ravensbriick, dove visse uno spaventoso calvario durato oltre
quattro anni.
Anni di autentico martirio. Non solo per le
umiliazioni, la fame, i lavori pesanti, il freddo, le violenze
fisiche e morali, pane quotidiano in quei luoghi di sterminio, ma
perché, ad un certo momento, lei e alcune altre compagne furono
scelte come cavie per misteriosi esperimenti medici. Trasferite in
una specie di infermeria, erano sottoposte a interventi chirurgici,
ad orribili mutilazioni, asportazioni di pezzi di ossa, iniezioni di
batteri nelle ferite per provocare infezioni e cancrene, che erano
poi trattate con altri prodotti chimici. Un calvario spaventoso e
interminabile. Quasi tutte le ragazze morirono una dopo l’altra e
Wanda sopravvisse per miracolo.
Tornata a casa, era una larva umana. Riprese a
studiare, si laureò in medicina, ma dentro di lei il tarlo degli
incubi continuava a roderla e a tormentarla. Si sentiva una donna
finita, che lottava disperatamente con i fantasmi del passato, senza
riuscire a sconfiggerli. Aveva paura di se stessa, degli altri,
della vita. I principi cristiani che aveva ricevuto da bambina
cozzavano spaventosamente con la crudeltà che aveva subito nel
Lager.
Cercava aiuto. Lo cercava soprattutto dai
sacerdoti, ma non trovava nessuno disponibile ad ascoltarla e a
capire i suoi problemi. Nel 1950 incontrò Karol Wojtyla, e rimase
colpita dal fatto che era una persona che “ascoltava”. Divenne il
suo confessore e direttore spirituale.
Fu lui a “guarire” la sua anima, ad aiutarla a
ritrovare se stessa e la fiducia nei propri simili. E, mano a mano
che la conosceva bene, Wojtyla capì che quell’incontro non era
casuale. Abituato a vedere le cose da un punto di vista mistico, si
convinse che le terribili sofferenze che quella giovane donna aveva
subito e sopportato non erano cosa che riguardasse solo lei stessa.
Per il mistero del “Corpo mistico di Cristo”, riguardavano tutti, in
particolare forse proprio lui, che dalla guerra era stato
risparmiato. Negli anni in cui Wanda “moriva” nel Lager, egli aveva
scoperto la propria vocazione al sacerdozio. E poi, era toccato a
lui, sacerdote, il compito di “curare” le ferite che il Lager aveva
lasciato nell’anima di quella persona. Non erano coincidenze
casuali, c’era un nesso, un legame.
Questa
convinzione venne fortificata da un fatto straordinario che accadde
nel 1962. Wanda, che nel frattempo si era sposata e aveva già
quattro bambine, venne colpita da un tumore. Wojtyla intanto era
diventato vescovo e nel settembre del 1962 si trovava a Roma per il
Concilio Vaticano II. E fu a Roma che ricevette la lettera di Wanda
con la diagnosi definitiva dei medici: tumore maligno. Non c’erano
più speranze. Con grandissimo dolore, ma anche con cristiana
rassegnazione, Wanda si preparava a morire. Ma Wojtyla le scrisse
una lunga lettera per invitarla a non perdere le speranze e a
combattere per difendere la propria vita.
<<Dusia>>, le scrisse <<desidero mobilitarti,
come posso, a lottare per la tua salute e la tua vita. Vedi, hai
dietro di te le esperienze orribili di Ravensbriick, hai una serie
di parti difficili e un lavoro logorante, ma hai appena compiuto
quarantuno anni, hai quattro bambine piccole e Andrzej. Dusia, c'è
ancora qualcosa di più, una determinata missione o vocazione, che è
una cosa rara, una particolare esperienza dell'uomo, fondata sull
'esperienza di te stessa. Si tratta di servire, con questi valori,
le altre persone più a lungo possibile, anche se non nella stessa
quantità di adesso, ma qui soprattutto è la qualità che importa>>.
Il futuro Papa si rivolse a Padre Pio. Lo aveva
conosciuto nel 1948. Sacerdote da un anno, si trovava a Roma dove
studiava teologia all’università. Venne a sapere che, sul Gargano,
in Puglia, c’era un frate cappuccino con le stigmate e decise di
andare a trovarlo. Si fermò a San Giovanni Rotondo una settimana,
incontrò più volte Padre Pio, si confessò da lui. Non si sa che cosa
Padre Pio gli abbia detto, ma certamente qualche cosa di importante
perché Wojtyla non dimenticò più quel religioso.
Per questo, quando seppe che la sua amica era in pericolo di vita,
ricorse subito e con grande fiducia a lui. Gli scrisse una lettera
in data 11 novembre 1962, spiegandogli la situazione e chiedendo
preghiere per l’ammalata. La lettera venne affidata ad Angelo
Battisti, dipendente della Segreteria di Stato e Amministratore
della “Casa Sollievo della Sofferenza”. Battisti la portò
personalmente a Padre Pio. Molti anni dopo, raccontandomi quell’episodio,
Battisti mi disse che il Padre volle che gli leggesse la lettera. Al
termine della lettura, rimase alcuni attimi in silenzio, quindi
disse: “Angelino, a questo non si può dire di no”. Sentendo quelle
parole, e sapendo che Padre Pio aveva il dono di leggere nei cuori,
Battisti cominciò a chiedersi chi mai fosse quel vescovo di cui
Padre Pio aveva detto: “A questo non si può dire di no”. Ma nessuno
lo conosceva e anche per i polacchi era solo un giovane e ancor
sconosciuto vescovo.
Undici giorni dopo, Battisti dovette tornare a
San Giovanni Rotondo con una nuova lettera del vescovo Wojtyla e in
questa seconda lettera c’era una straordinaria notizia: “La donna
ammalata di cancro, ancora prima dell’intervento chirurgico,
inaspettatamente ha recuperato la salute”. Wojtyla aveva bussato
alla porta giusta ed era stato esaudito.
Quella guarigione prodigiosa divenne per
Wojtyla un ulteriore segno che illuminava il legame spirituale
esistente tra lui e la donna che Dio gli aveva fatto incontrare. Fin
dall’inizio era convinto che quella donna avesse sofferto nel Lager
anche per se stesso, e ora, con quella guarigione, la convinzione si
rafforzò, divenne “consapevolezza”.
E fu lo stesso Wojtyla a rivelare questa
propria “consapevolezza” alla dottoressa Wanda. Lo fece in uno dei
momenti più importanti della propria esistenza: il 20 ottobre 1978,
quattro giorni dopo essere stato eletto Pontefice della Chiesa. In
una lunga e bellissima lettera, la prima che scrisse alla dottoressa
Poltawska da Papa, volle affrontare apertamente il tema della loro
amicizia. Amicizia che ora, dopo che lui era diventato Papa, poteva
anche essere giudicata male da estranei. Ma era un’amicizia, come
egli scrisse “radicata e fissata in Dio, nella sua grazia”, e quindi
doveva continuare.
Ecco
la parte di quella lettera che parla esplicitamente di questo
argomento:
<<Il Signore Gesù ha voluto che quello che a
volte veniva detto, quello che tu stessa avevi detto il giorno dopo
la morte di Paolo VI, diventasse realtà. Ringrazio Dio per avermi
dato, questa volta, così tanta pace interiore – quella pace che mi
mancava in modo evidente ancora in agosto – che ho potuto vivere
tutto ciò senza tensione. Con la fiducia che Lui e sua Madre
dirigeranno tutto, anche in queste relazioni, preoccupazioni e
responsabilità più personali. Con la convinzione che – se non
seguirò la chiamata – anche in questi rapporti posso rovinare tutto
<<Capisci che, in tutto questo, penso a te. Da
oltre vent'anni, da quando Andrzej mi disse per la prima volta:
“Duska è stata a Ravensbriick”, è nata nella mia consapevolezza la
convinzione che Dio mi dava e mi assegnava te, affinché in un certo
senso io “compensassi” quello che avevi sofferto lì. E ho pensato:
lei ha sofferto al mio posto.
A me Dio ha risparmiato quella prova, perché
lei è stata lì. Si può dire che questa convinzione fosse
“irrazionale”, tuttavia essa è sempre stata in me - e continua a
rimanerci. Su questa convinzione si è
sviluppata gradualmente tutta la consapevolezza della “sorella”.
E
anche questa appartiene alla dimensione di tutta la vita. Anch'essa
continua a rimanere. Mia cara Dusia! Tutta quella dimensione rimane
in me e deve rimanere in te. È sempre stata radicata e “fissata” in
Dio, nella sua grazia - ora deve esserci fissata ancora di più>>.
Sono parole che spiegano in modo chiaro la
natura e la qualità dell’amicizia che ha legato Karol Wojtyla a
Wanda Poltawska per 55 anni.
Amicizia con profonde radici teologiche e
mistiche e che ora, la dottoressa Poltawska ha dettagliatamente
raccontato e spiegato in questo libro.
Un’amicizia così straordinaria e sublime che
può nascere e crescere solo nel cuore e nell’anima dei grandi santi