Una magnifica serata per ricordare il grande tenore nel teatro
milanese dove ha riportato leggendari trionfi
GIUSETTE DI STEFANO
E’ TORNATO ALLA SCALA
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A due anni
dalla morte, Giuseppe Di Stefano è stato ricordato con una serata in
suo onore, voluta e organizzata dell’Accademia Arte & Musica, a
Milano, al teatro alla Scala. Alla manifestazione hanno partecipato
importanti critici e musicologi e nel corso della serata è stato
donato al Museo del Teatro alla Scala un magnifico ritratto del
tenore, eseguito dallo scultore W. Alexander Kossuth.
E’ difficile
parlare di questo di Di Stefano. E’ sempre stato un personaggio
scomodo, nel senso che non si è mai piegato di fronte a nessuno.
Aveva una personalità forte ed estremamente indipendente, ma il suo
comportamento è sempre stato leale e molto civile. Non ha mai fatto
il “tenore”. Amava dire: “Io sono un uomo che per divertirsi ha
anche cantato”. Ha polemizzato con direttori d’orchestra, con
colleghi cantanti, con i critici. Nella sua carriera ha avuto alti e
bassi. E’ stato sommo, inarrivabile. E poi è caduto, ancor giovane,
in difficoltà vocali tremende. E allora i suoi nemici gli sono
saltati addosso godendo di vederlo nella polvere. Lo hanno
criticato, inventando cause assurde del suo crollo che per anni ha
dovuto portarsi dietro.
Ma adesso, a
distanza di tanto tempo, è possibile tracciare un bilancio sereno.
Ormai le polemiche sono acqua passata. Solo coloro che non capiscono
niente di musica insistono in quelle critiche, che non hanno proprio
nessun senso.
Giuseppe
Di Stefano fa parte della storia della musica. Su questo non ci sono
dubbi. E della Storia della musica con la S maiuscola. Tra le grandi
voci del nostro secolo, occupa un posto di primaria importanza. Per
certi versi è stato un tenore unico. Anche perchè la bellezza della
sua voce si è sempre accompagnata a una stupefacente chiarezza
declamatoria e interpretativa, come raramente è dato incontrare. Il
suo fraseggiare, il suo porgere, sia nelle arie come nei recitativi,
era spontaneo, naturale, perfetto, degno di un attore di prosa. <<In
palcoscenico io “recito cantando”>>, affermava con orgoglio quando
era in carriera, e nessuno lo faceva con l’eleganza e la magia che
aveva lui.
Di Stefano è
nel cuore di tutti gli appassionati di canto. Pensando a lui, si
immagina una voce, bella come nessun’altra, libera e fresca come
quella di un eroe, che se ne va, ineffabile, nell’aria. Nelle opere
liriche, come nelle canzoni, trascinava in un mondo di emozioni
indimenticabili.
Di Stefano è
stato una leggenda. Ed è ancora un mito. Anche perchè ha avuto la
fortuna di essere protagonista di un evento unico nella storia della
musica: cantare spesso in coppia con Maria Callas, formando con la
“divina” un “duo” irripetibile. Pippo e Maria erano due geni del
palcoscenico. Due personalità forti e incoercibili, che, messe
insieme, formavano una miscela esplosiva, dalla forza artistica
incalcolabile. Chi ha assistito allo loro opere negli anni Cinquanta
sa che un miracolo del genere non succederà mai più. Ma, per
fortuna, le loro interpretazioni, ancora diffuse in milioni di Cd,
continuano a stupire ed emozionare il mondo.
Siamo stati
amici per anni. L’ho intervistato molte volte. Ma non amava
l’incontro con i giornalisti. In un’occasione però fu molto
loquace. Parlò a ruota libera. Fu nel 1996, quando andai a trovarlo
per un articolo per “Ongaku No Tomo”, la prestigiosa rivista di
musica classica giapponese, che lo pubblicò su otto pagine. Sono
andato a rileggermela in questi giorni. E’ un’intervista ricca di
confidenze eccezionali, di informazioni inedite sulla sua vita e
sulla sua carriera. Credo che per la prima volta abbia rivelato in
quell’intervista la vera storia della sua crisi vocale e della sua
relazione con Maria Callas. Un documento molto importante, e penso
la sua ultima lunga intervista.
<<L’ultimo
concerto>>, mi disse allora Di Stefano <<l’ho tenuto nel dicembre
del 1995 in Messico. In quella nazione avevo cantato la prima volta
nel 1952, quando avevo fatto una tournée con Maria Callas
interpretando cinque opere, che avevano mandato in visibilio il
pubblico. Da allora ero sempre stato un beniamino di quella gente. E
anche per l’ultimo concerto avevo ricevuto accoglienze trionfali.
Ma, nel corso di quel concerto mi resi conto che gli applausi erano
regalati. La mia voce era scassata. Facevo pena a me stesso. Al
termine mi son detto: “Basta Pippo, è giunta l’ora di non aprir più
bocca”. E così è stato>>.
Parlava con un
tono di voce deciso ma che, all’accenno di non cantar più, tradì una
leggera commozione. Stavamo camminando lungo l’Adda, il fiume che
scorre poco lontano dalla sua casa in Brianza. Era una bella
giornata di fine autunno. Pippo mi aveva dato appuntamento
all’improvviso. <<Passo da casa, vieni a trovarmi>>, mi aveva detto
al telefono. Parlava da Amburgo, in Germania, dove si era recato
per partecipare a una grande festa in suo onore. Si sarebbe fermato
nella sua casa alcuni giorni, poi via, verso il caldo. Da alcuni
anni trascorreva i mesi invernali in Kenia. <<Mi sono fatto
costruire una bella casa lungo la spiaggia dell’Oceano Indiano, a
pochi chilometri da Mombasa>>, mi aveva raccontato. <<Mi trovo
benissimo in Africa. Ho scoperto un’altra vita, un altro pianeta.
Prima ero legato ai teatri, alla mondanità, alle feste, alle grandi
città, al chiasso, ai casinò e, naturalmente, alla mia professione
di cantante. Adesso adoro il vento, il silenzio, gli spazi infiniti
della giungla, il sole a picco, la natura selvaggia. Vivo in una
zona che fino a qualche anno fa era deserta. Mangio quasi
esclusivamente frutta, come i tucani. Dormo all’aria aperta, sotto
l’ombra degli alberi, come i vecchi leoni. Sto a mollo nella mia
piscina di acqua di mare, come una foca. Trascorro ore a osservare i
tramonti tropicali, densi di una malinconia struggente e sempre
nuovi. Il Di Stefano di un tempo, il tenore per intenderci, non c’è
più. Io sono un’altra persona>>.
<<E
la musica? Hai tradito la musica?>>, gli avevo domandato
<<No, la musica
io non la posso tradire. La musica è la mia anima. Io sono fatto di
musica. Nella mia grande casa africana ho fatto installare un
magnifico impianto stereofonico e lo tengo accesso molte ore al
giorno. Ascolto opere a anche molta musica sinfonica. Sono diventato
un fanatico di Mozart. Ma ascoltare i capolavori di Mozart,
Beethoven, Bach, Verdi, Puccini, Bellini, Donizetti in quella terra,
tra quegli spazi, in quel silenzio, ti dà emozioni che qui, nella
confusione caotica delle nostre città, non si possono neppure
immaginare>>.
Accanto a Pippo
c’era la sua seconda moglie, Monika Curth, soprano tedesco,
conosciuta sul palcoscenico e sposata nel 1992. <<Pippo è il mio
idolo fin da quando ero una bambina>>, mi disse Monika. <<Poi,
quando ho cantato con lui, è diventato il mio sogno e adesso è mio
marito. Sono felice e stiamo bene insieme>>.
<<Anche in
Africa Pippo è famoso>>, disse ancora Monika. <<Quando andiamo a
fare la spesa in città, ogni tanto incontriamo delle persone.
Italiani, francesi, inglesi, americani, tutti lo riconoscono.
Qualcuno ha tentato di organizzare dei concerti, ma Pippo ha detto
decisamente di no. Non canta più in pubblico. Lo fa solo in casa
nostra, quando gli viene voglia. E la sua voce è ancora bellissima.
Se ne sono accorti anche i nostri collaboratori domestici che sono
indigeni. Quando Pippo canta, si fermano, si siedono per terra e
ascoltano rapiti. E’ bellissimo vedere la scena. Pippo, con indosso
soltanto in paio di calzoncini, nel salotto della nostra casa o in
giardino sotto le palme, impegnato in qualche aria belliniana, con
acuti ancora perfetti e filati inimitabili, e intorno i domestici di
colore che lo guardano con i loro occhi bianchi, pieni di stupore. E
accanto ai negri, anche i nostri due cani: Simba, un Rhodesian
ridgecat terribile, usato per la caccia ai leoni e che a noi serve
da guardia, e Chidogo un trovatello bastardino: anche loro sono
innamorati della voce di Di Stefano>>.
<<Pippo, ti
vedo felice, ti sento soddisfatto: non hai nessuna nostalgia dei bei
tempi passati?>>, domandai..
<<Tanta
tanta>>, rispose socchiudendo gli occhi quasi a voler rivedere il
passato. <<Per certi versi. la mia vita è stata bella come una
favola. Spesso, però, le favole, hanno delle brutte conclusioni. Io
invece sono fortunato. Sono felice anche ora che non canto più. Per
cui ogni tanto penso al passato, ma non lo rimpiango: vivo con gioia
il presente, che per me, nonostante tutto, è molto bello>>.
<<Quando ti
sei accorto che eri nato per fare il tenore?>>.
<<Ho preso
coscienza delle mie qualità canore a poco a poco. Fin da piccolo, mi
piaceva cantare, ma lo facevo senza calcoli. Cantavo perchè ero
felice. Cantavo canzonette. Non conoscevo niente dell’opera>>.
<<In
famiglia, c’era qualcuno che amasse la lirica?>>.
<<Che io sappia
no. Sono siciliano. Sono nato a Motta Santa Anastasia, a pochi
chilometri da Catania. Mio padre era un carabiniere. Dopo la mia
nascita lasciò l’arma, si trasferì a Milano in cerca di fortuna.
Aveva un negozietto di ciabattino. Ma era troppo onesto per far
soldi. E’ sempre stata mia madre a mandare avanti la baracca, con la
sua abilità nell’arte del cucito. Né mio padre né mia madre si erano
mai interessati di lirica. Cominciarono a distinguere un tenore da
un soprano quando io sono diventato famoso alla Scala>>.
<<Chi per
primo ti ha avvicinato al mondo della musica classica?>>.
<<Un amico. Un
certo Danilo Fois, che divenne poi un noto avvocato. Aveva qualche
anno più di me, ma giocavamo a carte insieme. Quando vincevo,
canticchiavo e lui, che era un fanatico di lirica, mi ascoltava
estasiato perchè diceva che avevo una bellissima voce. Un giorno,
improvvisamente, sentenziò, gridando forte: “Tu sei un tenore”. Lo
guardai meravigliato. “Cosa hai detto?”, chiesi. “Tu sei un tenore”,
ripetè guardandomi con gli occhi fuori dalla orbita. “Adesso ho
capito: tu sei un tenore e diventerai famoso, ne sono certo”.
Ripresi a guardare le mie carte pensando che volesse prendermi in
giro. Invece, da quel giorno egli continuò a parlarmi di lirica, a
illustrarmi le qualità della mia voce, a ripetermi che dovevo
trovarmi un maestro e cominciare a studiare seriamente musica.
<<A poco a poco
riuscì a incuriosirmi. Un giorno decisi di andare con lui ad
ascoltare un’opera alla Scala. Ma quel primo contatto con la lirica
risultò noioso e antipatico. Dovetti fare una fila di ore, per avere
il biglietto e finire poi in loggione, tra gli appassionati più
sfegatati che a me però sembravano dei pazzi, degli esaltati.
L’opera non mi diede alcuna emozione. Non la capivo. Non ricordo
neppure che opera fosse. Tornai a casa disgustato e continuai a
preferire le canzonette. Ma Danilo non si scoraggiò. Per lui “ero un
tenore” e continuò a imbottirmi la testa con le sue fantasie.
<<Una sera mi
portò in una osteria dove si esibivano tutti coloro che pensavano di
avere una bella voce e aspettavano poi il giudizio della gente.
Cantai anch’io e fu un disastro. Nessuno applaudì. Solo Danilo mi
disse: “Hai cantato benissimo”. In seguito, sempre spinto dal mio
amico, partecipai a un paio di concorsi e li vinsi. La mia foto finì
sul “Corriere della sera”, nella pagina degli spettacoli. Tutti la
videro e mi facevano le congratulazioni. Nella zona dove vivevo,
improvvisamente ero diventato qualcuno. Le ragazze mi guardavano in
modo diverso. La cosa mi inorgoglì. Mi resi conto che con la voce si
potevano avere dei vantaggi e cominciai anch’io a prendere in
considerazione la possibilità di fare il tenore>>.
<<Hai
studiato con qualche maestro?>>.
<<Ho ricevuto
delle lezioni di solfeggio da un tenore, Adriano Torchio, che
cantava nel coro della Scala. Poi qualcuno mi presentò al baritono
siciliano Luigi Montesanto, che era allora una celebrità. Tutti
hanno sempre scritto che Montesanto è stato il mio maestro e anch’io
l’ho sempre detto. In realtà, sono stato a scuola da lui soltanto
due mesi. Poi è scoppiata la guerra e sono partito per il servizio
militare>>.
<<Hai
dovuto quindi interrompere le lezioni>>.
<<Ma ho
cominciato a cantare. La vera preparazione alla mia carriera l’ho
fatta sotto le armi, cantando per necessità. Il servizio militare
era duro per me. Non sopportavo la disciplina, le marce, le
levatacce. Mi accorsi però che, cantando, tutti mi volevano bene ed
erano disposti a chiudere un occhio sulla mia pigrizia. Il tenente
medico Giovanni Tartaglione, da cui dipendevo, era terribile e
temuto da tutti. Di me diceva: “Sei un fetente”. Ma dopo avermi
sentito cantare, cominciò a stimarmi. Certe sere mi chiedeva di
cantare per i soldati e mi ascoltava estasiato. Un giorno arrivò
l’ordine che il nostro battaglione doveva partire per la Russia.
Significava andare incontro alla morte. Lo sapevamo bene. Il tenente
mi chiamò e mi disse: “Tu devi rimanere in Italia. Come soldato sei
un fetente, ma come tenore, un giorno sarai utile al nostro Paese”.
Mi abbracciò commosso e mi consegnò l’ordine di trasferimento in un
altro reparto che non sarebbe partito per la Russia. In questo modo
mi salvò la vita. Dalla Russia non tornò neppure lui.
<<All’inizio
del 1943 ottenni una lunga licenza per malattia. A Milano c’era
miseria. I miei genitori non avevano lavoro, in casa si faceva la
fame. Decisi di sfruttare la mia voce. Mi presentai a un impresario
che stava allestendo uno spettacolo e gli chiesi di ascoltarmi.
Cantai alcune canzoni e lo conquistai. Mi offrì 150 mila lire a
serata e il giorno dopo cantavo nel suo spettacolo. Cambiai nome. Mi
facevo chiamare Nino Florio. Non volevo che sui manifesti di quello
spettacolo, che era di varietà, ci fosse il mio vero nome. Ero certo
ormai che un giorno sarei diventato un tenore famoso e non volevo
che il mio vero nome, Giuseppe Di Stefano, potesse essere in qualche
modo confuso con un cantante di canzonette. Nino Florio divenne
subito famoso. Dopo una settimana, il mio cachet era di 500 mila
lire a serata.
<<Finita la
licenza, tornai a fare il soldato. L’otto settembre del 43, quando
arrivarono i tedeschi ero in caserma. Capii che le cose si mettevano
male. Riuscii a farmi dare un permesso di libera uscita mostrando a
un comandante delle SS una mia foto in smoking e dicendogli che ero
un famoso tenore, molto più bravo di Beniamino Gigli. Mi credette e
mi accompagnò di persona all’uscita della caserma.
<<Tornai a
Milano, presi il treno per rifugiarmi in un paesino in provincia di
Varese dove avevo una fidanzata. Ma il capotreno, che mi conosceva,
mi suggerì di lasciar perdere la fidanzata e di continuare il
viaggio oltrepassando la frontiera per raggiungere la Svizzera. “Se
stai qui”, disse “finirai in un campo di concentramento tedesco”. Lo
ascoltai e fu la mia fortuna. In Svizzera mi costituii come
prigioniero politico. Venni collocato in un campo di raccolta dove
mi trattavano benissimo. Anche lì mi servii della voce per farmi
notare. Un caporale svizzero, che si era innamorato della mia voce,
ma che cercava di fare la corte anche a me, volle accompagnarmi a
Zurigo per un’audizione al Teatro di Stato. Cominciai a tenere
concerti. Interpretai diverse opere a Radio Losanna. Incisi anche
dei dischi per “La voce del padrone”, una casa di grande prestigio.
Divenni così famoso che quando morì Franklin Roosvelt, presidente
degli Stati Uniti, benchè fossi un soldato italiano e quindi
appartenente a una nazione che era in guerra con gli Stati Uniti,
venni chiamato dall’ambasciatore americano a cantare nella
cattedrale di Berna nel corso di una cerimonia funebre in onore del
presidente defunto.
<<Rientrai
a Milano nel ‘45. Ormai sapevo che la mia voce valeva oro. Ero
deciso a sfruttare l’occasione. Tornai a riprendere lezioni da
Montesanto. Ma la fama di quello che avevo fatto in Svizzera si era
già diffusa anche in Italia. Fui avvicinato da un celebre
impresario, Carlo Alberto Cappelli, che mi offrì un contratto per
dieci recite di “Manon” di Massenet. Accettai e il 20 aprile 1946
feci il mio debutto in un’opera, in Italia, sul palcoscenico del
Teatro Sociale di Reggio Emilia, ottenendo un successo strepitoso.
Nove mesi dopo ero alla Scala e subito dopo al Metropolitan di New
York. La mia carriera era partita con la velocità di un razzo e non
si fermò più>>.
<<Per undici
anni sei stato un fenomeno. Un astro incandescente. Il “tenore” per
eccellenza. Tutti invidiavano il tuo modo di cantare naturale,
spontaneo, facile. Poi, improvvisamente, il crollo. Che cosa ti era
accaduto?>>.
<<La risposta è
complicata. Prima di tutto, bisogna dire che io non ho mai avuto la
vocazione di “fare soltanto il tenore”. Anzi, ho sempre odiato
questo ruolo. Io ero un uomo che si divertiva a cantare. E quando
non c’era il divertimento, si annoiava al punto da non cantare più.
La maggior parte degli artisti lirici sono dei mercanti della
propria voce. Cantano per far soldi. Quindi cercano di conservarsi,
di mantenere in perfette condizioni la propria voce per guadagnare.
Questo non è mai stato il mio caso. Non sono mai stato schiavo della
mia voce. Non ho mai smesso neanche di fumare. Io ho sempre cantato
per passione. Quando venivo scelto per interpretare un’opera
importante, mi sentivo orgoglioso ma non ho mai discusso sul cachet.
Però ero pronto a piantar tutto se qualcosa mi avesse irritato. Sono
un tipo passionale ed emotivo. E i miei famosi capricci non erano
frutto di superbia, ma crolli emotivi. Se non trovavo un’atmosfera
distesa intorno a me, non riuscivo a cantare. Direttori d’orchestra
famosi, come Toscanini, De Sabata, Serafin, Guarnieri, avevano
capito questo mio carattere e mi mettevano nelle condizioni di dare
il meglio di me stesso. Altri, invece, erano freddi e con loro stavo
male. Così me ne andavo. Non ho mai litigato. Ma ho piantato un
sacco di opera a metà.
<<La vera causa
che interruppe la mia carriera fu un banale incidente. Un cantante,
per essere bravo, deve restare senza soldi. Solo il tenore affamato
ha la voce limpida e squillante. Il benessere porta alle comodità,
al supernutrimento, al mal di fegato, alla distruzione della voce.
Il benessere è stato la causa anche della mia crisi.
<<Nel 1958,
all’apice della mia carriera, mi feci costruire una villa
meravigliosa a Milano, nella zona di San Siro. Aveva tutte le
comodità. Perfino l’aria condizionata, allora ancora molto rara, e
il riscaldamento a pannelli, cioè con l’acqua calda che scorreva
sotto il pavimento, che era una novità.
<<Nella mia
villa mi sentivo un re. Quell’inverno cantavo alla Scala. Andai alla
prima prova in piena forma. Ma dopo una mezz’ora improvvisamente la
voce scomparve. Pensavo a un colpo di freddo. Tornai a casa e andai
a letto. Il mattino dopo feci qualche gorgheggio e la voce era
splendida. Andai alle prove ma dopo pochi minuti restai di nuovo
afono. La cosa si ripetè nei giorni successivi. Dovetti interrompere
l’opera. I giornali cominciarono a scrivere che ero finito.
Accusavano il mio modo di cantare a voce spiegata, a gola larga.
Dicevano che ero rovinato per sempre. Credetti ai giornali e provai
a cantare stretto ma non servì a niente. Cominciò così una crisi
spaventosa. La voce andava e tornava, capricciosamente senza che
potessi dominarla. In quelle condizioni non potevo essere sicuro di
me stesso. Per cinque anni continuai a studiarmi e a indagare sulle
cause che mi procuravano quelle terribili afonie e finalmente
scoprii l’origine delle mie disgrazie: ero una vittima del
benessere. Ero ricco e avevo voluto nella mia villa quel nuovo
riscaldamento a pannelli, che pochi potevano permettersi. E quel
riscaldamento mi aveva rovinato. L’aria calda, passando sotto il
pavimento ricoperto di moquette di naylon, asciugava l’umidità delle
stanze. Io respiravo aria secca, la quale mi seccava le mucose della
gola e dei bronchi. Cantando, in pochi minuti consumavo la riserva
di umidità del mio apparato respiratorio e le corde vocali si
irritavano lasciandomi afono. Quando scoprii questo, vendetti la
villa, ma non servì a niente. Ormai era troppo tardi>>.
<<Poi,
però, sei riuscito a riprenderti. Infatti, sei tornato a ottenere
ancora grandi trionfi alla Scala e in tanti altri teatri>>.
<<E’ vero, ma
da allora ho sempre avuto i critici contro. Hanno continuato a
gridare che ero finito anche se avevo ripreso a cantare come ai
vecchi tempi. Mi odiavano. Erano invidiosi perchè non avevo mai
voluto ascoltare i loro stupidi consigli. E per molte persone la
ripresa non è mai esistita.
<<Ma chi
se ne intendeva veramente di canto, si era accorto che avevo
riacquistato la voce di un tempo. Nel 1974 ebbi una grande
soddisfazione. Avevo 53 anni. Da otto i critici continuavano a
tormentarmi dicendo che mi ero rovinato volendo cantare a modo mio.
Me ne avevano dette così tante che io stesso mi ero convinto di
essere veramente finito per sempre. Ma ecco che si fece avanti la
più grande artista lirica in piena attività di quegli anni:
Montserrat Caballè. Dopo avermi sentito cantare a un concerto,
chiese di incidere un disco con me. La cantante spagnola in quel
momento poteva fare quello che voleva. Essere richiesti da lei era
un grande onore. E significava essere veramente bravi. Non volle uno
di quei tenori giovani che in quel momento erano in auge. Scelse me.
Il suo atto di stima mi diede l’entusiasmo dei tempi d’oro. Cantai
divinamente e facemmo un disco stupendo. Io stesso non credevo di
conservare una voce così incisiva. Ne fui molto felice perchè potevo
dimostrare ai miei nemici che non avevo perduto la voce da cretino,
come avevano scritto, ma che ero ancora Giuseppe Di Stefano>>.
<<Nel 1973
tu fosti protagonista anche di una serie di concerti che hanno fatto
storia: la celebre tournée con Maria Callas che, grazie a te, era
tornata a cantare dopo mi sembra otto anni di assenza dal
palcoscenico>>.
<<In realtà si
trattava di un ritorno per tutti e due. Lei non cantava da otto
anni. Io ero sempre con la spada di Damocle della mia crisi sulla
testa. Negli Anni Cinquanta eravamo stati una “coppia lirica”
leggendaria. Ritornare a cantare insieme era un grosso avvenimento.
<<A chi
venne quell’idea?>>.
<<Al destino.
Noi artisti torniamo sempre sul luogo del delitto. Abbiamo trascorso
gli anni migliori della vita sul palcoscenico e quando non possiamo
respirare più la polvere del palcoscenico stiamo male. Sono convinto
che tutti i cantanti lirici a riposo, anche i novantenni, sarebbero
pronti a riprendere l’attività se ne avessero l’occasione. Io e
Maria non ci sentivamo in età da pensione. Anche se qualche
invidioso avrebbe voluto che fossimo al ricovero. Eravamo convinti
di avere ancora qualcosa da dire al nostro pubblico e da insegnare
ai giovani. Per questo decidemmo di tornare.
<<Il progetto
era stato preparato con un anno di anticipo e l’inizio dei concerti
doveva avvenire a Londra il 22 settembre 1973 nella Royal Festival
Hall. Tutto era pronto. I biglietti per assistere al concerto erano
esauriti da mesi ma una indisposizione di Maria ci impedì di
rispettare l’appuntamento e così debuttammo ad Amburgo, che invece
era la seconda tappa del tour.
<<Ad Amburgo
trovammo un pubblico straordinario. Il grande Auditorium del centro
dei Congressi, dove tenemmo il concerto, è un teatro con una
acustica perfetta. Era esaurito in ogni ordine di posti, anche se il
biglietto era molto caro. C’erano spettatori venuti da ogni parte
del mondo anche dal Giappone. C’erano molti cari amici, come Liz
Taylor con la figlia Liza, Rossellini, Patroni Griffi e al termine
del concerto vennero in camerino per le felicitazioni>>.
<<Come
reagì il pubblico durante quella tournée>>.
<<Con
entusiasmo. Ovunque, ma soprattutto a Parigi, Londra e New York,
dove Maria aveva ammiratori fanatici. La critica invece si mostrò
ostile. Non era mai accaduto che cantanti famosi e tramontati,
tornassero alla ribalta. Maria, negli anni in cui non aveva cantato,
essendo vissuta accanto a Onassis, era stata un personaggio della
cronaca mondana. Contro di lei c’erano pregiudizi e invidie, per
questo i critici si dimostrarono cattivi>>.
<<E il tuo
giudizio sulla Callas di quei concerti?>>.
<<Positivo. La
Callas era ancora straordinariamente dotata. Certo, gli anni erano
passati anche per lei, ma restava ancora una delle migliori
cantanti. In America, durante alcuni concerti di quella tournée,
cantò come vent’anni prima. Maria aveva un temperamento emotivo,
aveva bisogno della presenza del pubblico per caricarsi. All’inizio,
aveva paura, era insicura, poi prese forza, migliorando
continuamente. All’ultimo concerto era perfetta. I critici cercarono
il pelo nell’uovo dimostrandosi poco intelligenti. L’arte vera non
sta nella nota emessa bene, ma nell’anima e nella passione. Maria
metteva il fuoco nel suo canto, metteva irruenza, istinto, era
proprio questo che la distingueva da tutti gli altri. Quando
cantava era un vulcano in eruzione>>.
<<Era un
vulcano anche nella vita privata?>>.
<<Al contrario.
Era semplice e umanissima. Non era una cantante ventiquattro ore al
giorno. Se lo fosse stata, sarebbe stato impossibile vivere vicino a
lei. Quando saliva sul palcoscenico, veniva rapita dalla furia
artistica. Subiva una specie di choc. E andava soggetta a quei
famosi “scoppi di temperamento” che la resero famosa in tutto il
mondo>>.
<<E’ vero
che durante la tournée avete litigato?>>.
<<Sì, è vero.
Ma litigavamo per stupidaggini. Erano semplici scontri di due
caratteracci. I “battibecchi” non avevano conseguenze. La mia grande
ammirazione e la mia profonda stima per Maria mi impedirono sempre
di tenerle il broncio. Anche negli anni d’oro della nostra carriera.
Una volta, cantando con lei in Messico, piantai tutto e me ne andai.
E così feci alla Scala, dopo la “prima” di Traviata, nel 1955. Ma me
ne andavo senza rancore. Io mi arrabbiavo solo quando sentivo cantar
male. Ma con la Callas questo non è mai accaduto>>.
<<Nel 1973
voi due insieme avete anche tentato un esperimento di regia, e la
critica vi ha stroncato in modo violento>>.
<<Molto si è
scritto sulla nostra regia dei “Vespri siciliani” per l’apertura del
Nuovo Teatro Regio di Torino. Anche in quell’occasione, ai critici
non pareva vero di poter prendersela con due famosi artisti. La
nostra regia non fu brillante. Ma avevano mille scuse in nostro
favore. Il teatro nuovo non era ancora finito. Avemmo poco tempo per
provare. C’erano polemiche tra dirigenti e artisti. Ci fu anche
l’improvvisa sostituzione del direttore d’orchestra. In mezzo a
simili difficoltà, nessuno avrebbe potuto fare meglio di noi.
<<Ma la cosa
importante che nessuno mise in evidenza allora, sta nel fatto che
noi volemmo esprimere una nostra concezione della regia di opere. I
registi di quel tempo avevano delle teorie che noi non
condividevamo. Loro volevano il movimento in scena. Mentre tenori e
soprani cantavano, facevano passare sul palcoscenico pecore,
cavalli, cani, storpi: di tutto, purchè di fosse movimento. Secondo
loro, l’orchestra e il canto avrebbero dovuto fare da sottofondo
alle scene, come la colonna sonora di un film. Niente di più
sbagliato. Nell’opera lirica contano la musica e i cantanti. Noi
tentammo di difendere l’opera lirica. Eravamo degli istintivi, forse
non colti come gli altri registi alla moda, ma in fatto di musica
pochi potevano parlare con cognizione di causa come noi due>>.
<<Su quella
tournée corsero molte voci. Si disse che in realtà fu solo una scusa
per nascondere un vostro grande amore. Tu non hai mai voluto parlare
di questa vicenda. Ma ormai è passato tanto tempo, potresti chiarire
finalmente i dubbi>>.
<<E’ un
argomento che mi mette in imbarazzo>>, dice Di Stefano dopo una
breve pausa di silenzio. <<Non mi sento a mio agio nelle
conversazioni che coinvolgono i sentimenti più profondi. Ho
l’impressione che a renderli pubblici si commetta una profanazione,
per questo ho sempre rifiutato di affrontare questo tema.
<<Dopo la morte
di Maria, tutti mi chiedevano di lei, della nostra vita insieme.
Diversi editori volevano che scrivessi un libro, ma ho sempre
rifiutato. Non ho mai voluto parlare di queste vicende. Neppure
quando la mia ex moglie ha scritto un libro accusando la Callas di
essere stata la rovina del nostro matrimonio. Non ho letto il libro
nè mai ho risposto alle accuse.
<<Ma ci sono
state poi alcune accuse ancora più gravi, che mi hanno ferito
profondamente. Alcuni critici e alcuni biografi della Callas hanno
scritto che io avrei approfittato della sua fama per farmi
pubblicità; che avrei organizzato la famosa tournée del ‘73, quando
la Callas non aveva più la voce di un tempo, solo per soldi, per
vendere il suo nome. Sono accuse ignobili e ingiuste. La verità è
che organizzai quei concerti per aiutare Maria a vivere e a tornare
nel mondo del canto, dove forse poteva trovare ancora un po’ di
felicità.
<<Quei concerti
hanno rappresentato la “salvezza fisica” per la Callas e sono una
testimonianza artistica estremamente interessante, come si può
ricavare dalle incisioni che sono in circolazione. Io e Maria
formavamo una coppia perfetta. Così perfetta che solo io mi ero
accorto della disperazione in cui era caduta quando Onassis l’aveva
lasciata per sposare Jacqueline Kennedy. Era stata dimenticata dal
mondo artistico, dai suoi amici fasulli, dal jet set che l’aveva
sfruttata quando era famosa. Maria si sentiva tremendamente sola e
voleva morire. Io ho capito il suo dramma e le ho voluto bene
proprio in quel periodo. Perchè sapevo che solo il canto avrebbe
potuto darle speranza>>.
<<Quindi vi
siete amati?>>.
<<Sì, ci siamo
amati>>.
<<Come
avvenne l’incontro fatale?>>.
<<Niente di
straordinario, niente di fatale. Alla fine del 1972 io ero a New
York di ritorno dalla Corea, dove avevo fatto una tournée. Gli
organizzatori mi aveva chiesto di tornare con un soprano e mi
avevano fatto il nome della Callas, offrendo per lei diecimila
dollari a concerto. Maria non cantava da tempo e non pensavo neppure
di riferirle quella proposta. Ma a New York, un comune amico a cui
avevo confidato quel progetto, mi disse: “Telefoniamo subito a Maria
che è qui”. Telefonò lui, ma la Callas non era in albergo e lasciò
un messaggio dicendo che Di Stefano la stava cercando. Io allora le
mandai dei fiori. Quella sera ero a casa dell’attore Ben Gazzarra
che aveva organizzato una festa per me. A un certo momento la Callas
telefonò. Disse a Ben che mi aveva cercato dappertutto e lui le
rispose: “Te lo mando subito”. Non volevo lasciare la festa. Ben
disse: “Maria è più importante”. Raggiunsi l’albergo e salii. Bussai
alla porta di Maria che mi aprì con un grande sorriso e disse: “Lo
so, tu mi hai sempre voluto bene”. E io: “Queste tue parole allora
mi autorizzano a entrare”. Entrai e nacque la nostra avventura
sentimentale>>.
<<Com’era la
Callas allora? Come donna, intendo>>.
<<Distrutta,
completamente a terra. Mi ripeteva: “Ogni giorno che passa è un
giorno di meno che mi resta da vivere”. “Devi riprendere a cantare”,
rispondevo. “Non ho più voce”, si lamentava. “Se canti, la voce
tornerà”, ribattevo.
<<Il giorno
dopo andammo dalla pianista con la quale ogni tanto studiava. Maria
si avvicinò al pianoforte e tremava come una foglia. Cominciò a
cantare e non aveva un fil di voce. Allora l’abbracciai e le dissi:
“Usciamo, andiamo a fare una passeggiata al Central Park”. Piangeva,
era tremendamente emozionata, era come un bambino spaventato. Non mi
lasciava un momento. La sera successiva avevo un concerto a New
York, e lei rimase sempre nel mio camerino>>.
<<Come l’hai
convinta a tornare sul palcoscenico?>>
<<Mi resi conto
che solo il canto poteva ridargli la voglia di vivere. Continuavo a
ripetere che doveva vincere la paura e riprendere il contatto con il
teatro. Poi tornai in Italia perchè dovevo cantare “Carmen” e lei
venne a trovarmi a Sanremo, dove avevo un appartamento. Con la sua
auto andammo alla spiaggia dove avevo la barca e scoprimmo che barca
e auto avevano la stessa targa. L’auto: Parigi 1345. La barca:
Imperia 1345. In quel particolare Maria vide un segno del destino.
Si legò ancor più a me e accettò di fare una tournée di concerti>>.
<<Il vostro
fu vero amore?>>
<<Fu grande
amore. Avevamo un’intesa perfetta che ci permetteva nello stesso
tempo di restare liberi. La nostra non era solo passione, la nostra
era tenerezza infinita, complicità artistica ad altissimo livello,
voglia di rivincita, amore maturo. Un’avventura che non si può
descrivere e che non ho mai dimenticato>>.
<<Ma poi, se
non sbaglio, è finita male>>.
<<Durò tre
anni. Maria non era una donna facile. Aveva un carattere complicato.
Non seppe accontentarsi, aspettare. La vita è sempre un imprevisto.
Nessuno sa mai perchè avvengono tante cose. Io e Maria non avevamo
preventivato di incontrarci e non pensavamo che andasse a finire
come è finita>>.
<<Quando
ti sei accorto che la vostra storia si stava deteriorando?>>.
<<Il giorno in
cui mi sono sentito tanto felice. Mi pareva che la nostra intesa
fosse proprio perfetta. E subito mi sono detto: “E’ troppo bello,
non può durare”. Maria, quando amava, era possessiva, invadente,
affamata e gelosa. Aveva una gelosia feroce, cieca. Era peggio di
Otello. Credo che sarebbe stata capace di uccidere per gelosia. Ero
ancora sposato e lei era gelosissima di mia moglie. Non perdeva
occasioni per punzecchiarmi provocando reazioni dolorose>>.
<<Perchè,
data la situazione, non ti eri diviso da tua moglie?>>.
<<In quel
periodo stavo vivendo un terribile dramma familiare. Avevo una
figlia, Luisa, di 19 anni ammalata di tumore, che poi morì. Maria mi
restò vicina in quella tragedia ma non seppe attendere. Doveva
capire che quello non era il momento per pensare a divisioni,
separazioni o cose del genere. Bisognava attendere che il tempo
rimarginasse le ferite. Ma come ho detto, lei agiva d’impulso come
una bambina, commettendo gravi errori che io non potevo accettare>>.
<<Per
esempio?>>.
<<Voleva che
tutti sapessero della nostra situazione. Durante la tournée, dopo
una serie di concerti in giro per l’America, tornammo a New York per
un concerto in quella città. C’era grandissima attesa. Tutti ci
aspettavano con il fucile puntato, per controllare se eravamo
all’altezza della nostra fama. Bisognava restare concentrati,
pensare solo al canto. Invece lei si distraeva. Accettò di fare
un’intervista alla televisione per parlare degli uomini della sua
vita. Raccontò che erano tre: il marito, Giovan Battista Meneghini,
Aristotele Onassis ed io. Venne ad avvertirmi che la televisione
avrebbe mandato in onda quell’intervista e io andai su tutte le
furie.
<<Sapevo che
una notizia del genere avrebbe scatenato la stampa. Allora presi il
telefono chiamai mia moglie a Milano e la feci venire immediatamente
a New York. Successe il finimondo. La Callas era inviperita. A mia
moglie non sembrava vero di poterla fare arrabbiare. Alla fine la
Callas cedette, si riempì di barbiturici e si svegliò alle cinque
del pomeriggio del giorno dopo, incapace di reggersi in piedi. E
così non si fece il concerto.
<<Ero fuori di
me. Le dicevo: “Tu sei la Callas, tu rappresenti il canto, non puoi
permetterti cose del genere”. Ci siamo arrabbiati. Lei ha fatto
alcuni concerti da sola poi siamo tornati insieme. Ma ne ha subito
combinata un’altra. Mentre ci preparavamo a cantare, a mia insaputa,
chiamò l’organizzatore e gli disse: “Continuerò la tournée solo se
la moglie di Di Stefano torna in Italia”. Quando lo venni a sapere
persi le staffe. Non potevo ammettere che fosse ricorsa a un
estraneo per dare ordini a mia moglie. Se voleva mandarla via doveva
ricorrere a me. Non la perdonai. Capì di aver sbagliato e venne a
chiedermi scusa. Ci riconciliammo e finimmo la tournée ma ormai
qualcosa tra noi si era incrinato per sempre. Al termine della
tournée era finita anche la nostra intesa sentimentale. Almeno
decidemmo noi di mettere fine a quella vicenda>>.
<<Nella tua
lunga carriera hai conosciuto tanti artisti grandissimi: chi ti ha
colpito di più?>>.
<<La Callas
resta un personaggio unico. Io credo che, con il passar del tempo,
la sua fama andrà aumentando e la gente scoprirà che la sua capacità
artistica era veramente somma. Un altro personaggio che mi ha
profondamente affascinato fu Arturo Toscanini. Averlo conosciuto e
aver cantato con lui è stata una autentica fortuna. Lo adoravo. Ma
poichè sapevo che aveva un caratteraccio non volevo cantare con lui:
temevo perdesse la pazienza e mi costringesse a mancargli di
rispetto. Lui mi cercava e mi voleva, ed io lo sfuggivo.
<<Un giorno,
all’inizio della carriera, arrivai a New York. Appena salito in
camera, in albergo, squillò il telefono. Rispose il mio maestro, il
baritono Montesanto. Era Toscanini al telefono. Mi aveva sentito
cantare alla radio e disse: “Quel ragazzo canta come piace a me,
senza smancerie, questa sera lo voglio qui a casa mia”. Non potei
rifiutare. Diventammo subito amici. L’anno successivo mi voleva per
il ruolo di Felton nel “Falstaff” di Verdi, ma io ero occupato e non
potei andare. Nel 1951 mi richiamò per il “Requiem” di Verdi che
diresse alla Carnee Hall di New York in occasione dei cinquant’anni
della morte del maestro e fu un’esperienza bellissima. Ricordo che
durante le prove si faceva portare dei grossi salami: li affettava
lui stesso per farceli mangiare a merenda. Con noi cantanti era come
una madre. Al termine di quella esecuzione, ,o regalò una medaglia
d’oro. Su un lato vi è il volto del compositore e sul rovescio la
dicitura: “A Giuseppe Di Stefano in ricordo” e la firma autografa di
Arturo Toscanini.
Di Stefano mi
fa vedere la medaglia che porta al collo. <<Non me ne separo mai>>,
mormora stringendola tra le dita..
<<Dicono che
tu ami molto il gioco?>>.
<<Purtroppo è
vero. Mi piace giocare e al gioco ho perso una fortuna. Io gioco
solo alla roulette. E’ un gioco dove conta solo la fortuna, il caso.
Non ci vuole nessuna partecipazione del cervello. Non ho mai giocato
a poker, nè a “chemin de fer”. Non mi piace giocare contro la gente.
Nella roulette invece si gioca contro la macchina e questo mi
affascina. Alla roulette è facile vincere. C’è sempre un momento in
cui si guadagna. Basterebbe fermarsi in quel momento per evitare
disastri economici, ma io non ho mai saputo resistere alle
tentazioni e così ho perduto miliardi. Quando comincio a giocare ci
sto giorni e notti intere. Vengo preso dal vortice di quella pallina
che gira. Non riesco a sottrarmi al suo influsso. Mi sembra un
diavolo che a volte mi parla, mi incita, mi promette vincite, mi
caccia via.
<<Sulla porta
di casa mia, a Sanremo, c’erano segnati tre numeri: uno, zero, tre.
Sono combinazioni che mi hanno sempre fatto impazzire. Quasi sempre,
quando viene fuori l’uno subito dopo viene fuori lo zero e poi il
tre. Oppure, prima viene il tre poi lo zero poi l’uno. Questi numeri
mi hanno mangiato un sacco di soldi. Ma sapere che quasi sempre si
verificano queste misteriose combinazioni, è una cosa estremamente
affascinante alla quale non sono mai riuscito a resistere. Del resto
se fossi diverso, non sarei Pippo Di Stefano>>.
<<Giochi
ancora?>>.
<<E come no? In
Africa, vicino a dove abito, c’è un casinò. Il lupo perde il pelo,
il vizio mai!>>.
Questa
l’intervista che Giuseppe Di Stefano mi diede allora. Ha continuato
a vivere felice con la moglie Monika. D’inverno emigrava in Kenia e
d’estate tornava per alcuni mesi in Italia. Ci telefonavamo.
L’ultima volta lo vidi nel novembre del 2004. Andai a salutarlo
perché partiva per il Kenia.
<<Ci rivedremo
in primavera>>, gli dissi abbracciandolo.
<<Tornerò come
sempre con le rondini>>, rispose felice.
Non lo vidi
più.
Partì per il
Kenia il 29 novembre al mattino. Arrivò nella sua villa a Mombasa
nel pomeriggio. Era con la moglie e un amico. Stanchi per il
viaggio, andarono a riposare un paio d’ore. A sera, si prepararono
per andare a cena in un ristorante. Uscirono di case e videro nel
giardino degli indigeni che venivano verso di loro correndo. Di
Stefano li salutò festoso. Pensava fossero dei suoi ammiratori che
venivano a dargli il benvenuto, come accadeva sempre quando arrivava
per le vacanze. Invece, erano dei banditi, dei ladri. Estrassero
delle rivoltelle e sotto la minaccia delle armi tolsero a lui, a sua
moglie Monika e all’amico italiano, tutto ciò che avevano di
prezioso: orologi, denaro, anelli, bracciali, catenine <<Stiamo
calmi>>, ripeteva Di Stefano, sapendo che anche una minima reazione
poteva provocare una tragedia. Ma quando un bandito tentò di colpire
uno dei suoi cani, reagì si prese un violento pugno in faccia. Poco
dopo, il bandito tentò di strappargli la medaglia di Toscanini e Di
Stefano gridò “no, questa no” cercando di proteggerla con le mani,
ma il bandito lo colpì violentemente e il tenore perse
l’equilibrio e cadde per terra battendo la testa. Il bandito infierì
ancora contro di lui con dei calci, poi gli strappo la catenina con
la medaglia d’oro di Toscanini e fuggì con i suoi complici.
Di Stefano
aveva perso i sensi. Lo portarono all’ospedale. Era in coma. Fu
operato al cervello. Dopo un mese venne trasferito in Italia. Uscì
dal coma, ma non si riprese. Da allora, è vissuto immobile, senza
memoria, senza poter parlare, in una specie di coma vigilie, e
doveva essere alimentato da una macchina.
Per fortuna ha
sempre avuto accanto la moglie, Monika Curth, soprano tedesco, che
aveva sposato in seconde nozze. Un vero angelo che non ha mai
abbandonato il tenore infermo neppure per un momento. Per più di tre
anni è stata la sua infermiera, pronta a servirlo personalmente in
tutto, giorno e notte e sempre con amore infinito e il sorriso sulle
labbra. Inseparabili, fino all’ultimo respiro che di Stefano ha
emesso alla 8.30 di lunedì 3 marzo, 2008, mentre Monika gli
accarezzava il volto.
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